Ultimo giorno a New York,
sarà dura vedere tutto quello che manca all’appello. Per velocizzare prendiamo
la metro dopo aver comprato una copia del New Yorker e una del New York Times.
Sulla banchina d’attesa della metro c’è un duo che suona jazz come se fossimo in
un club ricercatissimo, da abito lungo.
La direzione è Wall
Street. Decine di turisti fanno a gara per toccare un po’ gli attributi del
toro, io penso che non sia affatto il caso. Non ho mai fatto neanche il giro
sul toro della Galleria di Milano, sono del parere che un toro così sfruculiato
non può portarti fortuna. Siamo in anticipo sulla tabella di marcia e sostiamo
da Starbucks per un caffè. Ai semafori gli autoctoni si distinguono per questi
enormi bicchieri bianchi con il tappo di plastica. Caffè lunghi, lunghissimi,
con l’aggiunta di creme caramel, cannella, panna e tutto ciò che si può pensare
di mettere dentro una bevanda.
New York scorre e io sono dietro al vetro. La
vedo come un film di cui mi sono subito sentita parte, come se fossi al di qua
e al di là dell’”azione”. E se ti senti parte di qualcosa devi anche
affrontarne le ombre.
Questo è l’angolo del
mondo che ha visto l’inferno durante l’11 settembre 2001. Non c’è bisogno di
indicazioni o della cartina per individuarlo. Nell’aria è rimasta la polvere e
la paura di quei momenti. C’è una piccola chiesa dove hanno trovato posto uno
striscione con scritto “Hope” e tanti post-it colorati con i pensieri di chi è
passato lì partendo da tutti i posti del mondo. In un angolo Never Forget è
cucito su una divisa da pompiere.
La Freedom Tower non è
ancora stata completata ma raccoglie lo sguardo che vaga alla ricerca delle
Twin Towers che non ci sono più. Facciamo una lunga fila per entrare nel luogo
di riflessione e raccoglimento che è il Memorial 9/11. Si invita al silenzio e
alla riflessione in tutte le lingue del mondo. Mi tornano in mente le parole di
Primo Levi: “Meditate che questo è stato”.
I controlli sono come
quelli dell’aeroporto, ci si spoglia, si passa sotto il metal detector, si
attraversa ancora un percorso in costruzione e poi si arriva a scorgere gli
alberi di Ground Zero. L’erba sta crescendo e gli alberi mettono le foglie. Sarà
una piazza aperta un giorno, forse quando la ferita sarà un po’ più chiusa.
Adesso ascolti il suono dell’acqua che scroscia e ti avvicini attraversando gli alberi alle due piscine. Sono enormi e quasi lo sguardo non ce la fa a includerle tutte anche se ti soffermi su una alla volta. Dove oggi ci sono queste immense fontane, fino al 10 settembre 2001 c’erano due torri con decine di piani e centinaia di persone. Ciascuna la propria aspettativa verso il futuro. Leggerne i nomi sui bordi delle due vasche ti si spezza il respiro. Sono intagliati nel metallo e puoi toccarli ma il dolore che provi non va via. Intanto l’acqua si tuffa con forza verso il centro della terra e quel suono ti si stampa nel cervello.
Acqua come simbolo di resilienza
e vita. Per dire che si è sopravvissuti.
Tra gli alberi curati e
ordinati piantati intorno alle due fontane ce n’è uno un po’ più piccolo con
dei sostegni, sgangherato. È un albero di pero che ha vissuto l’11/09 e quando
è stato ritrovato era ridotto a qualche rametto. Così con molte cure è
ritornato a crescere e a mettere rami e foglie. Ma poi sono arrivati gli
uragani e allora ha passato altri momenti da dimenticare. Però è lì adesso e
prova a mettere rami e foglie. È l’albero dei sopravvissuti.
Io le Torri Gemelle preferisco ricordarle così attraverso gli occhi di Philippe Petit, il funambolo che nel '74 attraversò i 60 metri che le dividevano su di un cavo teso fra i due grattacieli.
Io le Torri Gemelle preferisco ricordarle così attraverso gli occhi di Philippe Petit, il funambolo che nel '74 attraversò i 60 metri che le dividevano su di un cavo teso fra i due grattacieli.